giovedì 3 agosto 2006

II. 1. Gael

La stanza era poco illuminata perché la grande finestra ch’era di fronte all’ingresso aveva i riavvolgibili abbassati; provavo un leggero fastidio nel vedere tanto spreco di luce in una mattina così soleggiata.
« Siediti », mi disse la donna con un sorriso ruotando al di fuori il braccio destro in segno di ospitalità, mantenendo formale però il tono della voce quasi per conservare credibilità in quello che stava facendo. Ubbidii e mi sedetti quindi di fronte a lei. Si adagiò sulla sua poltrona in pelle nera mentre accingevo ad accomodarmi e un altro fastidio sopraggiunse, questa volta più grande: correva tutto così veloce, il tempo, e non riuscivo a pensare sul come agire e con che cosa avrei dovuto cominciare il “colloquio”.
Pigliò un foglio di carta (bianco) che era lì poco distante, afferrò burrascosamente una penna abbastanza stilosa (nera) e scrisse velocemente una riga. Solo dopo mi accorgevo della presenza di altre due sedie: una a destra poco distante dalla sedia centrale (quella dove poggiava il mio didietro) ma praticamente attaccata alla scrivania ed una a sinistra decisamente più distante, sia dalla mia sedia sia dalla scrivania della donna.
« Come ti chiami? … Anni? … Indirizzo? … Recapito telefonico? ». Io risposi con estrema chiarezza ad ognuna di queste domande introduttive mentre continuavo il giro di perlustrazione con le pupille.
L’arredamento era legnoso e ciò non mi dispiaceva, peccato fosse di un legno così scuro che rubava luce alla stanza la quale altrimenti sarebbe apparsa avvenente; ben ordinata, pulita e calda (sia in termini di “accoglienza” sia perché sembrava essere dentro una serra!), non pareva lo studio di una psichiatra o psicologa che sia (in verità non sapevo nemmeno a chi mi ero rivolto); il soffitto era di un bel bianco, brillante se ci fosse stata la giusta illuminazione.
Aprì bocca, iniziò a presentare/si e fu il momento più noioso della breve seduta. Parlava parlava parlava. Non ricordo tutto quello che mi disse. Pronunciò il suo nome, cognome, elencò il suo curriculum professionale, parlò dei suoi successi nel suo settore (e in quale sennò) dei suoi approfondimenti accademici « Studi anche tu all’università? — interruppe improvvisamente il discorso “autoincensante” — scusami, avrei dovuto chiedertelo già dall’inizio! »; inizialmente non capii cosa mi stava chiedendo perché non prestavo tanta attenzione, per fortuna riuscii a ricomporre le ultime parole e annuii con un lieve imbarazzo. Riprese col suo discorso e – non so come – iniziò a parlare di gioventù, di adolescenza… “anche io sono stata adolescente”, mi rassicurò; non so come sono riuscito a trattenermi dal ridere!
« La psichiatria — aggiunse — è una scienza molto importante e qui siamo ancora in un punto così retrogrado — avreste dovuto vedere come sottolineò questo passaggio! — dove questa scienza viene vista come la scienza dei pazzoidi, ma non è così! È normale alla tua età avere dei problemi, anche se possono sembrare bizzarri e insormontabili! La presenza di uno specialista è necessaria e non devi sentirti strano o anormale. Capisci? »
« Certo. » Questa è fuori di sé! Non sapevo se continuare a sorridere tra me e me per divertirmi con un po’ di “ottimismo” o incazzarmi; nel frattempo sospirai, forse troppo rumorosamente, infatti segnò nuovamente qualcosa sul foglio: sono sicuro che marcava ogni mio movimento; anche la scelta di essermi seduto sulla sedia centrale e non sulle altre due era per la psichiatra oggetto di studio: la mia decisione manifestava un lato del mio carattere e della mia personalità (vorrei capire chi mai non si sarebbe seduto di fronte al proprio interlocutore!).
« …Devi pensare che negli Stati Uniti lo psichiatra è visto come un medico normale proprio perché lì hanno capito che una seduta psichiatrica è tuttavia come andare dal proprio medico di fiducia!… ».
Questa donna parlava già troppo. Le qualifiche che esponeva sulle pareti mi facevano capire quanto fosse inutile specializzarsi negli Stati Uniti se il cervello non funziona bene già di suo. Un titolo di prestigio non è il passepartout per un’attività intellettuale degna di nota, o forse sì?
Iniziavo a infastidirmi non tanto per la situazione che stavo vivendo da quindici minuti circa, ma da accorgimenti molto più generici e importanti.
Finalmente decise di chiudere il becco.
« Posso avere un bicchiere d’acqua fresca, per cortesia? » fu la prima cosa che mi venne in mente.
Ripetevo invece dentro di me insulti di ogni tipo nei suoi confronti.
La donna si allontanò dallo studio congedandosi con un “Certo… ci metto un minuto!”. In quel preciso momento non pensavo ad altro che alla sciocchezza, sì, sciocchezza (per non dirmi altro), cioè all’idea di aver accettato il suggerimento di mia madre. Non sarei dovuto andare da una psichiatra, non ne avevo bisogno. Avevo semplicemente bisogno di sfogarmi! Sto vivendo un momento non certamente tanto felice (forse), ma non è colpa mia se gli amici svaniscono nel momento del bisogno o che i genitori non sanno fanno fare i genitori! È una questione di concepimento del pensiero, che non può esser trasmesso o insegnato.
Ecchecazzo, tutto ma una psichiatra, no… poi una psichiatra così, mai!
Ero molto nervoso e mi vergognavo anche dello stato di agitazione che mi stava piombando addosso. Sudavo e mi tremavano le mani. Un altro sospiro, la lingua faceva attrito mentre si muoveva, perché si muoveva? Ah sì, perché avevo una leggera sete. Fissavo il tremore delle mani. La cavità orale era asciutta e desiderava bagnarsi d’acqua gelida.
Mi calmai un po’, ci volle un po’ di tempo, e pensavo un altro po’ al bicchiere d’acqua (perché la scema ci metteva così tanto?) mentre mi pulivo la fronte sudata con il dorso della mano.
Dopo mille pensieri iniziai ad abbandonare lo stato ansioso e cominciai a meditare qualcosa di grosso e già mi entusiasmavo nel doverlo compiere: fuggire da quel posto. Escogitai un piano molto semplice, ma decisi di immobilizzarmi per ancora un’altra manciata di secondi perchè sentivo ancora l’agitazione nel corpo.
Dopodichè aprii furtivamente la porta, diedi un’occhiata a destra e a manca e svanii dal secondo piano dopo aver raggiunto l’ascensore. Bravo, Gael Hutchinson! Una storia divertente in più da raccontare! Mi soffermai su questo dilemma non più di tre secondi. Mi chiedevo se fosse davvero questa la ragione che mi mosse in questo modo. Non avevo riflettuto delle conseguenze, inoltre non mi chiesi se fosse giusto scappare, se avrebbe toccato il mio orgoglio (fuggire non è sinonimo di coraggio e maturità), nulla. Fui molto impulsivo e questo mi meravigliava non poco. Non c’era nessuno lungo il breve corridoio: le sei sedie erano vuote (contate prima di entrare nello studio psichiatrico). Un po’ insolito, troppo bello. Sarei dovuto rimanere qualche secondo in più per godermi l’attimo, ma era meglio non rischiare. Mi sentivo più rilassato e mi vennero dei leggeri brividi di piacere: la tensione si scioglieva.
Mentre le portiere dell’ascensore si aprivano al piano terra pensavo alle parole della pazza. Chissà se ci credeva davvero in quello che diceva. Se ci sono molte persone che necessitano di una visita psichiatrica, mi domandavo, non penso sia un gran vanto per la società!
Passeggiavo e osservavo la moltitudine di persone camminare sui marciapiedi, le auto che sfrecciavano; guardavo la società muoversi, da un punto ad un altro, con un occhio diverso; come se non fossi del posto, come se fossi un extraterrestre venuto da un mondo lontano.
Vedevo delle coppiette e il loro approccio cambiava, vedevo i vecchietti sulle panchine, i bambini e gli adulti. Sembrava avessi visto tutto questo per la prima volta, ne ero quasi meravigliato. Eppure chissà quante volte avrò visto scene di questo tipo. È strano, notavo, osservare i comportamenti delle persone dimenticando per un istante che anche io faccio parte di questo complesso.
Le mie riflessioni si dissolsero a un centinaio di metri dal palazzo dove stava lo studio della pazza (iniziava a piacermi questo soprannome!) e al loro posto sopraggiunse una gran fame. Il bello è che reagii ai crampi allo stomaco con un lungo sorriso.
Dopotutto, mi chiedevo come ho fatto ad agitarmi per così poco. La scena era divertente, ora che la vedevo da fuori. Forse dovrei vivere questi momenti come se fossero già dei buffi ricordi.
Mi allontanai dal quartiere e presi la decisione di comprarmi una pizza al taglio con wurstel e prosciutto prima di tornarmene a casa.