giovedì 28 settembre 2006

III. 1. Norton jr.

Girovagando all’interno della casa abbandonata, decisi così di entrare in una stanza, presa a caso. Ero attento nei movimenti, ma mantenevo una certa disinvoltura e i passi erano precisi, leggeri e studiati, ma lunghi un metro ciascuno. Non è da me osservare questi dettagli poco importanti per il corretto svolgimento di una indagine che si rispetti.
Era polverosa, la stanza, dove la sporcizia copriva gli strati di muffa e dove le ragnatele brillavano sugli spigoli dell’armadio giallo pallido, sugli scrivani graffiati e sulle pareti tinte d’un bianco spento. I giochi d’elio distraevano gli occhi che sottratti dal loro dovere rimasero incantati. Infatti sottili dardi aranci di un sole timido ora squarciavano la stanza a metà, coloravano il pavimento nonché le sottilissime tele geometriche di una famiglia di ragni; il fascio serpeggiava quasi volesse rivelarmi qualcosa, per poi dissolversi; una nuvola che vestiva la nuda luce del sole per riapparire infine seguendo lo stesso percorso: fu questa la semplice osservazione che mi son fatto.
Ora un sottile capillare luminoso, ora non più. Era il gioco di un sole da poco apparso nel firmamento nella sua completa rotondità. C’era ancora freddo. L’umidità penetrava nelle mie ossa.
Lo spiraglio proveniva da un piccolo foro... Mi muovevo, e ancora un altro po’; gli occhi caddero sulla scrivania; l’incantesimo si ruppe.

Caro diario,
non era difficile percepire nei volti dei due amici un fastidio nei miei confronti, ho sempre dovuto preoccuparmi della mia presenza, come farla accogliere…”

Capii di cosa si trattava, quel quaderno. Pagine gialle e copertina marrone dalla carta spessa e porosa, non circolavano più questo genere di quaderni nelle botteghe.
Voltai pagina. Un’altra. Guardai il retro della copertina porosa: niente. Ora la copertina: nemmeno. La prima pagina inizia con un nome: Osbert Hutchinson.

***

Tacita espressione e un finto alito di vento. Le radici dei pensieri non sono visibili e dietro il fantasticare non c’è altro desiderio se non il fine stesso di fantasticare. Non è cosa veramente buona o salutare, direbbero alcuni. Certa gente non capisce che a volte è la coscienza stessa da ritrovare; non è sufficiente saziarsi o abbeverarsi, rallegrare il corpo o vivere in una ‘piccola cittadina vecchia’ facendo un mestiere, parlottando con vecchi uomini di mondo, ma di un loro mondo troppo piccolo, dal cuore giovane e coi quali mai potrai saziare la tua mente: giovane cuore e giovane pelle, sprecata in una mente e in una personalità retrograda.
Hutchinson questo la capiva. Non sempre lo ha capito, però. Ci sono stati tempi in cui egli detestava la ‘piccola cittadina vecchia’ per la sua ignoranza e staticità mobile. Sì, la chiamava così. Secondo Hutchinson la sua cittadina combinava nei peggiori dei modi la mentalità irremovibile – o quasi – di una certa tradizione o visione antropologica con le meraviglie del progredire, nuove, per quel popolino cocciuto ma indifeso.
Ora capiva che sino a quando i suoi piedi camminavano sulle strade della ‘piccola cittadina vecchia’ non doveva far altro che arrangiarsi con la sua sola mente. L’unico vero prezioso strumento, d’altro canto, ch’egli disponeva.
Doveva pensare e comunicare con chi poteva permettersi una conversazione interessante, che non sarebbe dovuta essere per forza una discussione d’un certo tipo, purché suscitasse un risultato degno di attenzione per Hutchinson.

***

Sfogliavo il vecchio quaderno di tale ‘Osbert Hutchinson’. Rimanevo sbigottito nel leggere certe pagine: alcune invitanti, altre poco meno, altre per niente anche se proprio su questi appunti mi soffermavo; mi domandavo che cosa ci fosse di utile nel buttare giù qualche riga su un:

metodo personale di osservazione del sociale per scritti futuri.

Questo era il titolo del breve scritto. Affianco, segnato in pedice tra due parentesi, (parte prima).
Appariva bene esser stato scritto successivamente, lasciandomi intendere che altri accorgimenti sul “metodo… ” son stati registrati in un altro tempo, su altre pagine.

“oggetto del metodo: capire su quali presupposti il mio occhio si muove nell’osservare il mondo che mi circonda; studiarci sopra, correggere ed individuare alcune caratteristiche della mia personalità e del perché io sono un osservatore. […] Per capire cosa mi muove nel conoscere limitando il più possibile le piaghe dolorose del pensare. […]

Obiettivi:

1) Perché osservo.

2) Quali oggetti osservo.

3) Cosa deduco, come deduco perché raggiungo tali conclusioni. […]”

A metà pagina si capiva meno cosa andavo a leggere, la calligrafia si era piegata in avanti e le lettere si facevano minuscole, meno tondeggianti e più somiglianti ad una linea dalle mille curve. Sembrava una scrittura tipica di un medico o di un uomo di scienza; però capivo quei segni, la lettura seppur messa in difficoltà andava più veloce, quasi i miei occhi seguissero la rapida traccia dell’autore.
Costretto a voltare lo sguardo sulla pagina a destra mi accorsi che la scrittura ripristinò la sua calligrafia originale. Non fu casuale.

“A pagina finita mi accorgo della calligrafia assunta dalla mia mano. Ci tengo nel segnalare in queste pagine un’osservazione, seppur non segua coerentemente il progetto di questo quaderno. Nella pagina precedente la mano seguiva il pensiero che galoppava. Perché con esso galoppava anche la mano? Per non perdere il pensiero da trascrivere che come un lampo luccicava pochi secondi per poi svanire? No, perché il tuono si sarebbe fatto sentire pochi secondi dopo. No, per il timore di non afferrar più quelle parole esatte, argute quanto naturali che uscivano dalla mente oramai in moto secondo un movimento non più stagnante. Dopo, altre parole altri sinonimi sarebbero sopraggiunti con una certa lentezza e ciò avrebbe ostacolato il pensiero. […] il pensiero non va ostacolato se possibile…

***

Hutchinson rientrava dalla breve passeggiata sotto un sole luccicante. Piegava il capo ogni tanto e fissava i volti dei passanti, sempre gli stessi sguardi da uomini stolti, e questi a loro volta lo guardavano, indagavano, borbottavano su cosa Hutchinson stesse osservando; su cosa la sua mente andasse a parare in quell’istante e intendevano capirlo dalle espressioni del suo volto.
«Secondo me pensa alla sua amata, l’ho capito da come guarda il cielo» diceva uno.
«Non dire fandonie, lo vedi ogni giorno assieme a me, ogni santa mattina passeggiare. Lo hai mai visto con una donna vicino?», rispose l’altro.
Il primo negò con il capo e nuovamente il secondo:
«Allora cosa parli a fare? E da cosa lo deduci? Mi dici “l’ho capito da come guarda il cielo”… tsz! Tu sei come quei giovanotti imbecilli che si fanno sorprendere dal suo fare bizzarro!» ma lo interruppe l’interlocutore: «Ora che ci penso, vi è una fanciulla».
«Io invec… Uh? Una fanciulla?».
«Sì, e lo ascolta nel suo parlare strano; parla anche lei strana… se invece facesse il suo dovere da femmina…»
«Di chi è figlia?» troncò il discorso.
L’amico rispose con precisione. La ragazza era la figlia del marito della sorella dell’architetto, cugina del postino da parte del padre. Aggiunse inoltre che a suo cognato è stato detto dal cugino della ragazza, che Hutchinson riceveva lettere da diverse donne.
«Magari sono sue cugine, sue parenti» concluse.
«Forse sue sorelle».
«No, impossibile. Non ha sorelle».
«Allora saranno sue cugine… o allieve… a quanto ho modo di vedere, lo conosci meglio di me».
«Allieve? – esclamò ridendo – magari sono sue amanti!».
«Ma dici sul serio?» interrogò l’amico con gli occhi spalancati.
«Su alcune buste vi erano raffigurati dei cuori» gli rispose e ridacchiò.