domenica 27 maggio 2007

IV. 2. Osbert

Ieri, come in questo momento, erano le «14-e-mezza», io continuavo il mio cazzeggio in camera, ma l’«inquinante richiamo» mi disturbò il corpo; io continuavo il mio cazzeggio, ma con un nodo alla gola, per non udire un altro richiamo, dopo cinque minuti dal primo, più disteso, più ripetuto, più violento, sempre più qualcosa.
Cosa vuol dire? Ah, beh sì certo, cioè voglio dire che era nuovamente pranzo, come fra non molto, come il giorno prima; poi panico quando la cena sarà “pronta” alle «22-e-un-quarto», Cristo! Dovevo porre rimedio, dovevo sperare. Domani di nuovo il pranzo: non oso immaginare; non immagino niente di niente, infatti. Solo e solamente una spiacevole interruzione.
Mia madre che mi chiamava, con quella voce, inquinante. Come onde tossiche, no?! Capisci? Che poi vibrano, no?! e… e altra roba simile, boh… dei disturbi che segnano circonferenze di gomitolo di spago dentro il cranio, e il gomitolo si fa più grande, sempre più grande, fino a fartelo scoppiare.
“Disgrazia” è combattere contro le proprie cellule, tediate e magre; ma perché!? Un intestino grigiastro e sottile come la salsiccia secca: ne ho un ricordo, un buon sapere, speziale, ma non me lo ricordo bene, dannazione!
Perché, dei o spiriti selvaggi! Tutto a me, sempre io, la vittima, il mondo ce l’ha con me, tutto quanto il peso dei secondi che picchiano forte sul muro. Maledette lancette; quell’orologio, devo cambiargli le batterie! Mi metterei le mani tra i capelli perché, perché c’è un motivo che non voglio scrivermi in testa… ah! Se avessi voglia di contrarre un muscolo, poi l’altro; come si chiamano? Bicipiti? Non so, non voglio pensare e ricordarmi, soffermarmi troppo a lungo, perché… perché…
Non ho voglia. Ecco perché.
Ora no.
Prima: non ricordo… non intendo.
Dopo: non lo so.
Non ho proprio voglia.

«Osbert, ti faccio una fettina? La vuoi?», mi aveva chiesto alle stramaledette «13-e-mezza» di ieri.
«C’è altro?».
«No, nient’altro. Come primo faccio la pasta…».
Annuivo sollevando le spalle.
“Stasera uscirò con una vecchia conoscenza di mio fratello Gael”, mi dicevo. La dovevo chiamare. Speravo che non mi avrebbe riportato nuovamente in quel ristorante; mi mette disagio: io non ho intenzione di scegliere, scelgo quello che ordinano gli altri, tanto tutto è uguale, poi passa il gusto prima o poi. Come sa il pesce? Di cosa sa la salsa gialliccia? È cibo, e poi diventa merda. L’obiettivo è la sazietà del momento. Vorrei stare in forma.

Ieri la tavola è stata imbandita velocemente. Tovaglia a quadri rossi, un classico. I polsi sul tavolo e le braccia ferme per aria, le dita picchiano. Una rosetta di creta, poco distante. Non avevo fame.
Arrivò il secondo piatto, neanche mi accorsi di aver consumato il primo. Arrivò, dunque: cosa c’era nel piatto? Uff… no, non avevo per niente fame.
«Cos’è questa cosa?» chiesi.
«La fettina di manzo» rispose.
A forma d’uovo, sottile, sul centro del piatto di plastica.
«Ma, ma è triste… è, è grigia! Mi deprime!»
«È fatta in padella…».
«Shhh…!!!», il capotavola.
Beh, c’era la TV; una minimo d’attenzione, come al solito: «Napolitano: essere antisionisti significa essere antisemiti». Parlava la TV.
«Volete stare zitti? Avete rotto i coglioni, cazzo! Porco dio!», il capotavola intervenne indicando la televisione.
Infatti, proseguiva: «…Io manifesto per la famiglia tradizionale perché è importante, è il fondamento naturale della nostra civiltà e deve rimanere così, come Dio l’ha fatta…».
«Mi fa cagare questa pasta – di nuovo il capotavola – la prendo e le faccio fare un volo… Via! Via! Non la voglio! Dalla ai cani questa roba!»
A me non dispiaceva, sapeva di pasta al sugo. Tutto è uguale.

Il coltello tagliava con fatica la fettina:

T-S-Z-K-G \ \ \ \ \ \ . . . . ...…
…... . . . . / / / / / / G-K-S-T-Z

Filettini millimetrici d’un marroncino chiaro si sollevavano nella direzione opposta al coltello; gocce catramose fuoriuscivano.
Mangiare è una costrizione.
Masticare, una serie di atti spontanei, quando c’è qualcosa in bocca da inghiottire: la mandibola si abbassa e poi si rialza, abbassa rialza, su e giù, su e giù.
La lingua faceva fatica, era stanca e svogliata. Rivoleva il contatto con il palato; non le piaceva essere disturbata. La lingua stava così bene: adoro il non gusto, il retrogusto remoto non definito di un sapore dissolto chissà da quanto, come acqua gelatinosa semi-liquida, la saliva che sa di aria da deglutire ridondantemente.
Labbra frigide, sottili e meschine al contatto col cibo. La forchetta le desiderava, ma le mie labbra no; immobili, all’aria. Uno sguardo all’orologio, dovevo riposare per non sentirmi più stanco la sera; dovevo uscire per l’ora di cena, assolutamente.
La fettina pastosa e asciutta, un gusto monolitico, ma non mi ci soffermavo.
A me non interessa gustare, né mangiare.
Mangiare è una costrizione, mi ripetevo.
Mi alzai di scatto, appena finita la fettina; un sorso d’acqua e subito in camera per scrivere un sms all’amica di Gael.
Alla fine, ieri, non sono uscito.

Mi chiamano: devo pranzare.
Penso che mangiare sia una costrizione.