domenica 27 maggio 2007

IV. 2. Osbert

Ieri, come in questo momento, erano le «14-e-mezza», io continuavo il mio cazzeggio in camera, ma l’«inquinante richiamo» mi disturbò il corpo; io continuavo il mio cazzeggio, ma con un nodo alla gola, per non udire un altro richiamo, dopo cinque minuti dal primo, più disteso, più ripetuto, più violento, sempre più qualcosa.
Cosa vuol dire? Ah, beh sì certo, cioè voglio dire che era nuovamente pranzo, come fra non molto, come il giorno prima; poi panico quando la cena sarà “pronta” alle «22-e-un-quarto», Cristo! Dovevo porre rimedio, dovevo sperare. Domani di nuovo il pranzo: non oso immaginare; non immagino niente di niente, infatti. Solo e solamente una spiacevole interruzione.
Mia madre che mi chiamava, con quella voce, inquinante. Come onde tossiche, no?! Capisci? Che poi vibrano, no?! e… e altra roba simile, boh… dei disturbi che segnano circonferenze di gomitolo di spago dentro il cranio, e il gomitolo si fa più grande, sempre più grande, fino a fartelo scoppiare.
“Disgrazia” è combattere contro le proprie cellule, tediate e magre; ma perché!? Un intestino grigiastro e sottile come la salsiccia secca: ne ho un ricordo, un buon sapere, speziale, ma non me lo ricordo bene, dannazione!
Perché, dei o spiriti selvaggi! Tutto a me, sempre io, la vittima, il mondo ce l’ha con me, tutto quanto il peso dei secondi che picchiano forte sul muro. Maledette lancette; quell’orologio, devo cambiargli le batterie! Mi metterei le mani tra i capelli perché, perché c’è un motivo che non voglio scrivermi in testa… ah! Se avessi voglia di contrarre un muscolo, poi l’altro; come si chiamano? Bicipiti? Non so, non voglio pensare e ricordarmi, soffermarmi troppo a lungo, perché… perché…
Non ho voglia. Ecco perché.
Ora no.
Prima: non ricordo… non intendo.
Dopo: non lo so.
Non ho proprio voglia.

«Osbert, ti faccio una fettina? La vuoi?», mi aveva chiesto alle stramaledette «13-e-mezza» di ieri.
«C’è altro?».
«No, nient’altro. Come primo faccio la pasta…».
Annuivo sollevando le spalle.
“Stasera uscirò con una vecchia conoscenza di mio fratello Gael”, mi dicevo. La dovevo chiamare. Speravo che non mi avrebbe riportato nuovamente in quel ristorante; mi mette disagio: io non ho intenzione di scegliere, scelgo quello che ordinano gli altri, tanto tutto è uguale, poi passa il gusto prima o poi. Come sa il pesce? Di cosa sa la salsa gialliccia? È cibo, e poi diventa merda. L’obiettivo è la sazietà del momento. Vorrei stare in forma.

Ieri la tavola è stata imbandita velocemente. Tovaglia a quadri rossi, un classico. I polsi sul tavolo e le braccia ferme per aria, le dita picchiano. Una rosetta di creta, poco distante. Non avevo fame.
Arrivò il secondo piatto, neanche mi accorsi di aver consumato il primo. Arrivò, dunque: cosa c’era nel piatto? Uff… no, non avevo per niente fame.
«Cos’è questa cosa?» chiesi.
«La fettina di manzo» rispose.
A forma d’uovo, sottile, sul centro del piatto di plastica.
«Ma, ma è triste… è, è grigia! Mi deprime!»
«È fatta in padella…».
«Shhh…!!!», il capotavola.
Beh, c’era la TV; una minimo d’attenzione, come al solito: «Napolitano: essere antisionisti significa essere antisemiti». Parlava la TV.
«Volete stare zitti? Avete rotto i coglioni, cazzo! Porco dio!», il capotavola intervenne indicando la televisione.
Infatti, proseguiva: «…Io manifesto per la famiglia tradizionale perché è importante, è il fondamento naturale della nostra civiltà e deve rimanere così, come Dio l’ha fatta…».
«Mi fa cagare questa pasta – di nuovo il capotavola – la prendo e le faccio fare un volo… Via! Via! Non la voglio! Dalla ai cani questa roba!»
A me non dispiaceva, sapeva di pasta al sugo. Tutto è uguale.

Il coltello tagliava con fatica la fettina:

T-S-Z-K-G \ \ \ \ \ \ . . . . ...…
…... . . . . / / / / / / G-K-S-T-Z

Filettini millimetrici d’un marroncino chiaro si sollevavano nella direzione opposta al coltello; gocce catramose fuoriuscivano.
Mangiare è una costrizione.
Masticare, una serie di atti spontanei, quando c’è qualcosa in bocca da inghiottire: la mandibola si abbassa e poi si rialza, abbassa rialza, su e giù, su e giù.
La lingua faceva fatica, era stanca e svogliata. Rivoleva il contatto con il palato; non le piaceva essere disturbata. La lingua stava così bene: adoro il non gusto, il retrogusto remoto non definito di un sapore dissolto chissà da quanto, come acqua gelatinosa semi-liquida, la saliva che sa di aria da deglutire ridondantemente.
Labbra frigide, sottili e meschine al contatto col cibo. La forchetta le desiderava, ma le mie labbra no; immobili, all’aria. Uno sguardo all’orologio, dovevo riposare per non sentirmi più stanco la sera; dovevo uscire per l’ora di cena, assolutamente.
La fettina pastosa e asciutta, un gusto monolitico, ma non mi ci soffermavo.
A me non interessa gustare, né mangiare.
Mangiare è una costrizione, mi ripetevo.
Mi alzai di scatto, appena finita la fettina; un sorso d’acqua e subito in camera per scrivere un sms all’amica di Gael.
Alla fine, ieri, non sono uscito.

Mi chiamano: devo pranzare.
Penso che mangiare sia una costrizione.

giovedì 28 settembre 2006

III. 1. Norton jr.

Girovagando all’interno della casa abbandonata, decisi così di entrare in una stanza, presa a caso. Ero attento nei movimenti, ma mantenevo una certa disinvoltura e i passi erano precisi, leggeri e studiati, ma lunghi un metro ciascuno. Non è da me osservare questi dettagli poco importanti per il corretto svolgimento di una indagine che si rispetti.
Era polverosa, la stanza, dove la sporcizia copriva gli strati di muffa e dove le ragnatele brillavano sugli spigoli dell’armadio giallo pallido, sugli scrivani graffiati e sulle pareti tinte d’un bianco spento. I giochi d’elio distraevano gli occhi che sottratti dal loro dovere rimasero incantati. Infatti sottili dardi aranci di un sole timido ora squarciavano la stanza a metà, coloravano il pavimento nonché le sottilissime tele geometriche di una famiglia di ragni; il fascio serpeggiava quasi volesse rivelarmi qualcosa, per poi dissolversi; una nuvola che vestiva la nuda luce del sole per riapparire infine seguendo lo stesso percorso: fu questa la semplice osservazione che mi son fatto.
Ora un sottile capillare luminoso, ora non più. Era il gioco di un sole da poco apparso nel firmamento nella sua completa rotondità. C’era ancora freddo. L’umidità penetrava nelle mie ossa.
Lo spiraglio proveniva da un piccolo foro... Mi muovevo, e ancora un altro po’; gli occhi caddero sulla scrivania; l’incantesimo si ruppe.

Caro diario,
non era difficile percepire nei volti dei due amici un fastidio nei miei confronti, ho sempre dovuto preoccuparmi della mia presenza, come farla accogliere…”

Capii di cosa si trattava, quel quaderno. Pagine gialle e copertina marrone dalla carta spessa e porosa, non circolavano più questo genere di quaderni nelle botteghe.
Voltai pagina. Un’altra. Guardai il retro della copertina porosa: niente. Ora la copertina: nemmeno. La prima pagina inizia con un nome: Osbert Hutchinson.

***

Tacita espressione e un finto alito di vento. Le radici dei pensieri non sono visibili e dietro il fantasticare non c’è altro desiderio se non il fine stesso di fantasticare. Non è cosa veramente buona o salutare, direbbero alcuni. Certa gente non capisce che a volte è la coscienza stessa da ritrovare; non è sufficiente saziarsi o abbeverarsi, rallegrare il corpo o vivere in una ‘piccola cittadina vecchia’ facendo un mestiere, parlottando con vecchi uomini di mondo, ma di un loro mondo troppo piccolo, dal cuore giovane e coi quali mai potrai saziare la tua mente: giovane cuore e giovane pelle, sprecata in una mente e in una personalità retrograda.
Hutchinson questo la capiva. Non sempre lo ha capito, però. Ci sono stati tempi in cui egli detestava la ‘piccola cittadina vecchia’ per la sua ignoranza e staticità mobile. Sì, la chiamava così. Secondo Hutchinson la sua cittadina combinava nei peggiori dei modi la mentalità irremovibile – o quasi – di una certa tradizione o visione antropologica con le meraviglie del progredire, nuove, per quel popolino cocciuto ma indifeso.
Ora capiva che sino a quando i suoi piedi camminavano sulle strade della ‘piccola cittadina vecchia’ non doveva far altro che arrangiarsi con la sua sola mente. L’unico vero prezioso strumento, d’altro canto, ch’egli disponeva.
Doveva pensare e comunicare con chi poteva permettersi una conversazione interessante, che non sarebbe dovuta essere per forza una discussione d’un certo tipo, purché suscitasse un risultato degno di attenzione per Hutchinson.

***

Sfogliavo il vecchio quaderno di tale ‘Osbert Hutchinson’. Rimanevo sbigottito nel leggere certe pagine: alcune invitanti, altre poco meno, altre per niente anche se proprio su questi appunti mi soffermavo; mi domandavo che cosa ci fosse di utile nel buttare giù qualche riga su un:

metodo personale di osservazione del sociale per scritti futuri.

Questo era il titolo del breve scritto. Affianco, segnato in pedice tra due parentesi, (parte prima).
Appariva bene esser stato scritto successivamente, lasciandomi intendere che altri accorgimenti sul “metodo… ” son stati registrati in un altro tempo, su altre pagine.

“oggetto del metodo: capire su quali presupposti il mio occhio si muove nell’osservare il mondo che mi circonda; studiarci sopra, correggere ed individuare alcune caratteristiche della mia personalità e del perché io sono un osservatore. […] Per capire cosa mi muove nel conoscere limitando il più possibile le piaghe dolorose del pensare. […]

Obiettivi:

1) Perché osservo.

2) Quali oggetti osservo.

3) Cosa deduco, come deduco perché raggiungo tali conclusioni. […]”

A metà pagina si capiva meno cosa andavo a leggere, la calligrafia si era piegata in avanti e le lettere si facevano minuscole, meno tondeggianti e più somiglianti ad una linea dalle mille curve. Sembrava una scrittura tipica di un medico o di un uomo di scienza; però capivo quei segni, la lettura seppur messa in difficoltà andava più veloce, quasi i miei occhi seguissero la rapida traccia dell’autore.
Costretto a voltare lo sguardo sulla pagina a destra mi accorsi che la scrittura ripristinò la sua calligrafia originale. Non fu casuale.

“A pagina finita mi accorgo della calligrafia assunta dalla mia mano. Ci tengo nel segnalare in queste pagine un’osservazione, seppur non segua coerentemente il progetto di questo quaderno. Nella pagina precedente la mano seguiva il pensiero che galoppava. Perché con esso galoppava anche la mano? Per non perdere il pensiero da trascrivere che come un lampo luccicava pochi secondi per poi svanire? No, perché il tuono si sarebbe fatto sentire pochi secondi dopo. No, per il timore di non afferrar più quelle parole esatte, argute quanto naturali che uscivano dalla mente oramai in moto secondo un movimento non più stagnante. Dopo, altre parole altri sinonimi sarebbero sopraggiunti con una certa lentezza e ciò avrebbe ostacolato il pensiero. […] il pensiero non va ostacolato se possibile…

***

Hutchinson rientrava dalla breve passeggiata sotto un sole luccicante. Piegava il capo ogni tanto e fissava i volti dei passanti, sempre gli stessi sguardi da uomini stolti, e questi a loro volta lo guardavano, indagavano, borbottavano su cosa Hutchinson stesse osservando; su cosa la sua mente andasse a parare in quell’istante e intendevano capirlo dalle espressioni del suo volto.
«Secondo me pensa alla sua amata, l’ho capito da come guarda il cielo» diceva uno.
«Non dire fandonie, lo vedi ogni giorno assieme a me, ogni santa mattina passeggiare. Lo hai mai visto con una donna vicino?», rispose l’altro.
Il primo negò con il capo e nuovamente il secondo:
«Allora cosa parli a fare? E da cosa lo deduci? Mi dici “l’ho capito da come guarda il cielo”… tsz! Tu sei come quei giovanotti imbecilli che si fanno sorprendere dal suo fare bizzarro!» ma lo interruppe l’interlocutore: «Ora che ci penso, vi è una fanciulla».
«Io invec… Uh? Una fanciulla?».
«Sì, e lo ascolta nel suo parlare strano; parla anche lei strana… se invece facesse il suo dovere da femmina…»
«Di chi è figlia?» troncò il discorso.
L’amico rispose con precisione. La ragazza era la figlia del marito della sorella dell’architetto, cugina del postino da parte del padre. Aggiunse inoltre che a suo cognato è stato detto dal cugino della ragazza, che Hutchinson riceveva lettere da diverse donne.
«Magari sono sue cugine, sue parenti» concluse.
«Forse sue sorelle».
«No, impossibile. Non ha sorelle».
«Allora saranno sue cugine… o allieve… a quanto ho modo di vedere, lo conosci meglio di me».
«Allieve? – esclamò ridendo – magari sono sue amanti!».
«Ma dici sul serio?» interrogò l’amico con gli occhi spalancati.
«Su alcune buste vi erano raffigurati dei cuori» gli rispose e ridacchiò.

giovedì 3 agosto 2006

II. 1. Gael

La stanza era poco illuminata perché la grande finestra ch’era di fronte all’ingresso aveva i riavvolgibili abbassati; provavo un leggero fastidio nel vedere tanto spreco di luce in una mattina così soleggiata.
« Siediti », mi disse la donna con un sorriso ruotando al di fuori il braccio destro in segno di ospitalità, mantenendo formale però il tono della voce quasi per conservare credibilità in quello che stava facendo. Ubbidii e mi sedetti quindi di fronte a lei. Si adagiò sulla sua poltrona in pelle nera mentre accingevo ad accomodarmi e un altro fastidio sopraggiunse, questa volta più grande: correva tutto così veloce, il tempo, e non riuscivo a pensare sul come agire e con che cosa avrei dovuto cominciare il “colloquio”.
Pigliò un foglio di carta (bianco) che era lì poco distante, afferrò burrascosamente una penna abbastanza stilosa (nera) e scrisse velocemente una riga. Solo dopo mi accorgevo della presenza di altre due sedie: una a destra poco distante dalla sedia centrale (quella dove poggiava il mio didietro) ma praticamente attaccata alla scrivania ed una a sinistra decisamente più distante, sia dalla mia sedia sia dalla scrivania della donna.
« Come ti chiami? … Anni? … Indirizzo? … Recapito telefonico? ». Io risposi con estrema chiarezza ad ognuna di queste domande introduttive mentre continuavo il giro di perlustrazione con le pupille.
L’arredamento era legnoso e ciò non mi dispiaceva, peccato fosse di un legno così scuro che rubava luce alla stanza la quale altrimenti sarebbe apparsa avvenente; ben ordinata, pulita e calda (sia in termini di “accoglienza” sia perché sembrava essere dentro una serra!), non pareva lo studio di una psichiatra o psicologa che sia (in verità non sapevo nemmeno a chi mi ero rivolto); il soffitto era di un bel bianco, brillante se ci fosse stata la giusta illuminazione.
Aprì bocca, iniziò a presentare/si e fu il momento più noioso della breve seduta. Parlava parlava parlava. Non ricordo tutto quello che mi disse. Pronunciò il suo nome, cognome, elencò il suo curriculum professionale, parlò dei suoi successi nel suo settore (e in quale sennò) dei suoi approfondimenti accademici « Studi anche tu all’università? — interruppe improvvisamente il discorso “autoincensante” — scusami, avrei dovuto chiedertelo già dall’inizio! »; inizialmente non capii cosa mi stava chiedendo perché non prestavo tanta attenzione, per fortuna riuscii a ricomporre le ultime parole e annuii con un lieve imbarazzo. Riprese col suo discorso e – non so come – iniziò a parlare di gioventù, di adolescenza… “anche io sono stata adolescente”, mi rassicurò; non so come sono riuscito a trattenermi dal ridere!
« La psichiatria — aggiunse — è una scienza molto importante e qui siamo ancora in un punto così retrogrado — avreste dovuto vedere come sottolineò questo passaggio! — dove questa scienza viene vista come la scienza dei pazzoidi, ma non è così! È normale alla tua età avere dei problemi, anche se possono sembrare bizzarri e insormontabili! La presenza di uno specialista è necessaria e non devi sentirti strano o anormale. Capisci? »
« Certo. » Questa è fuori di sé! Non sapevo se continuare a sorridere tra me e me per divertirmi con un po’ di “ottimismo” o incazzarmi; nel frattempo sospirai, forse troppo rumorosamente, infatti segnò nuovamente qualcosa sul foglio: sono sicuro che marcava ogni mio movimento; anche la scelta di essermi seduto sulla sedia centrale e non sulle altre due era per la psichiatra oggetto di studio: la mia decisione manifestava un lato del mio carattere e della mia personalità (vorrei capire chi mai non si sarebbe seduto di fronte al proprio interlocutore!).
« …Devi pensare che negli Stati Uniti lo psichiatra è visto come un medico normale proprio perché lì hanno capito che una seduta psichiatrica è tuttavia come andare dal proprio medico di fiducia!… ».
Questa donna parlava già troppo. Le qualifiche che esponeva sulle pareti mi facevano capire quanto fosse inutile specializzarsi negli Stati Uniti se il cervello non funziona bene già di suo. Un titolo di prestigio non è il passepartout per un’attività intellettuale degna di nota, o forse sì?
Iniziavo a infastidirmi non tanto per la situazione che stavo vivendo da quindici minuti circa, ma da accorgimenti molto più generici e importanti.
Finalmente decise di chiudere il becco.
« Posso avere un bicchiere d’acqua fresca, per cortesia? » fu la prima cosa che mi venne in mente.
Ripetevo invece dentro di me insulti di ogni tipo nei suoi confronti.
La donna si allontanò dallo studio congedandosi con un “Certo… ci metto un minuto!”. In quel preciso momento non pensavo ad altro che alla sciocchezza, sì, sciocchezza (per non dirmi altro), cioè all’idea di aver accettato il suggerimento di mia madre. Non sarei dovuto andare da una psichiatra, non ne avevo bisogno. Avevo semplicemente bisogno di sfogarmi! Sto vivendo un momento non certamente tanto felice (forse), ma non è colpa mia se gli amici svaniscono nel momento del bisogno o che i genitori non sanno fanno fare i genitori! È una questione di concepimento del pensiero, che non può esser trasmesso o insegnato.
Ecchecazzo, tutto ma una psichiatra, no… poi una psichiatra così, mai!
Ero molto nervoso e mi vergognavo anche dello stato di agitazione che mi stava piombando addosso. Sudavo e mi tremavano le mani. Un altro sospiro, la lingua faceva attrito mentre si muoveva, perché si muoveva? Ah sì, perché avevo una leggera sete. Fissavo il tremore delle mani. La cavità orale era asciutta e desiderava bagnarsi d’acqua gelida.
Mi calmai un po’, ci volle un po’ di tempo, e pensavo un altro po’ al bicchiere d’acqua (perché la scema ci metteva così tanto?) mentre mi pulivo la fronte sudata con il dorso della mano.
Dopo mille pensieri iniziai ad abbandonare lo stato ansioso e cominciai a meditare qualcosa di grosso e già mi entusiasmavo nel doverlo compiere: fuggire da quel posto. Escogitai un piano molto semplice, ma decisi di immobilizzarmi per ancora un’altra manciata di secondi perchè sentivo ancora l’agitazione nel corpo.
Dopodichè aprii furtivamente la porta, diedi un’occhiata a destra e a manca e svanii dal secondo piano dopo aver raggiunto l’ascensore. Bravo, Gael Hutchinson! Una storia divertente in più da raccontare! Mi soffermai su questo dilemma non più di tre secondi. Mi chiedevo se fosse davvero questa la ragione che mi mosse in questo modo. Non avevo riflettuto delle conseguenze, inoltre non mi chiesi se fosse giusto scappare, se avrebbe toccato il mio orgoglio (fuggire non è sinonimo di coraggio e maturità), nulla. Fui molto impulsivo e questo mi meravigliava non poco. Non c’era nessuno lungo il breve corridoio: le sei sedie erano vuote (contate prima di entrare nello studio psichiatrico). Un po’ insolito, troppo bello. Sarei dovuto rimanere qualche secondo in più per godermi l’attimo, ma era meglio non rischiare. Mi sentivo più rilassato e mi vennero dei leggeri brividi di piacere: la tensione si scioglieva.
Mentre le portiere dell’ascensore si aprivano al piano terra pensavo alle parole della pazza. Chissà se ci credeva davvero in quello che diceva. Se ci sono molte persone che necessitano di una visita psichiatrica, mi domandavo, non penso sia un gran vanto per la società!
Passeggiavo e osservavo la moltitudine di persone camminare sui marciapiedi, le auto che sfrecciavano; guardavo la società muoversi, da un punto ad un altro, con un occhio diverso; come se non fossi del posto, come se fossi un extraterrestre venuto da un mondo lontano.
Vedevo delle coppiette e il loro approccio cambiava, vedevo i vecchietti sulle panchine, i bambini e gli adulti. Sembrava avessi visto tutto questo per la prima volta, ne ero quasi meravigliato. Eppure chissà quante volte avrò visto scene di questo tipo. È strano, notavo, osservare i comportamenti delle persone dimenticando per un istante che anche io faccio parte di questo complesso.
Le mie riflessioni si dissolsero a un centinaio di metri dal palazzo dove stava lo studio della pazza (iniziava a piacermi questo soprannome!) e al loro posto sopraggiunse una gran fame. Il bello è che reagii ai crampi allo stomaco con un lungo sorriso.
Dopotutto, mi chiedevo come ho fatto ad agitarmi per così poco. La scena era divertente, ora che la vedevo da fuori. Forse dovrei vivere questi momenti come se fossero già dei buffi ricordi.
Mi allontanai dal quartiere e presi la decisione di comprarmi una pizza al taglio con wurstel e prosciutto prima di tornarmene a casa.

giovedì 27 luglio 2006

I. 1. Osbert

È un tardo pomeriggio estivo e stranamente non si respira il caldo umido della mattina. Sto abbastanza bene, devo ammettere, seppur io senta la presenza di oggetti che emanano bollenti vibrazioni di un’aria scottante: cemento di palazzine limitrofe, asfalto poco vicino e roventi lamiere di auto che camminano inquinando le mie orecchie di un frastuono accecante. Vi è un leggero vento che rinfresca, l’unica cosa buona che non mi fa pentire della scelta di mia cugina di andare a leggere i nostri libri del momento su una piazza, su questa piazza.
Graziosa, devo confessare; cosparsa e ricoperta di un verde intrecciato. Un floreale che mi ispira o forse mi rilassa un po’ soltanto, anche se questo è dovuto al mio ignorare di proposito quella trascuratezza che minaccia severamente la magia del posto.
I petali del glicine echeggiano la serenità da ritrovare. Jane sfoglia un libro, non riesco a vedere la copertina, dunque non so di cosa si tratta ed io seduto sulla panchina ombrosa le sto affianco.
«La vuoi smettere di osservare quella coppietta?»
E chi sta osservando, mi domando col pensiero e scuoto leggermente la testa in segno di smentita. Chinando il capo riprendo a leggere, almeno faccio finta. Difatti penso ancora tre secondi al rimprovero e nascondo il fastidio. Ci poteva essere il rischio di esser sentita dal ragazzo e magari se la sarebbe presa.
A dire il vero sto osservando la coppietta per davvero, ma a tratti; non è da me spiare le persone. Ogni venti righe sollevo lo sguardo per vedere a che punto sono rimasti.
La ragazza non è di buon umore, di questo me ne sono subito accorto. Lui fa il tenerone, sfrega con una mano la coscia o magari le accarezza la mano, con l’altra gioca coi suoi bei capelli castani, ma con una delicatezza non vera, quasi insicura, temendo una brusca reazione, la quale non si fa tanto aspettare.
Allora lui si alza dalla panchina e si allontana con fare severo. Lei non è per niente soddisfatta della reazione del compagno e le sue sopracciglia si contraggono manifestando chiaramente il suo disagio.
Di sicuro hanno bisticciato e lei sta pretendendo delle scuse.
Una colonna di macchine ferme al semaforo attirano la mia attenzione e il mio sguardo rimane incantato.
Quei due ragazzi mi fanno ricordare alcuni momenti passati con June, non certamente dei momenti felici. Quella ragazza ha i suoi stessi atteggiamenti irascibili, ma che nascondono una grande tenerezza; tuttora non capisco cosa di preciso non andava.
La cugina interrompe: «Ehi! Sono le sette, è tardi! Osbert, dobbiamo passare prima al centro commerciale, ti ricordi vero?». Mi sorprende che le persone che mi stanno affianco hanno nomi simili, a volte chiamavo mia cugina con il nome di June e viceversa. Prima che sparisse la piazzetta dalla mia visuale, volto la schiena e getto un ultimo sguardo. La mano di lui sfiora il suo viso mentre si scambiano dei teneri baci.
Tuttora di preciso non capisco cosa non andava con June, la mia cara piccola June, ma ora sto pensando di accompagnare Jane a comprarsi il profumo.

domenica 23 luglio 2006

Il primo post.

«Non c’è molto da meravigliarsi se nel romanzarsi l’esistenza si colgono slanci di vita, come non c’è da stupirsi dell’errore se osservando le dolci sfumature di grosse nuvole in un cielo tramontante si esclamano frasi del tipo «Oh, sembra un dipinto!», come se fosse la volta celeste a voler imitare le qualità artistiche del pittore e non il contrario. È buffo doversi accorgere che in certi momenti l’emozione prevale sul quotidiano e ci avviciniamo tanto ad uno scritto. Come chi seguendo un copione inserisce la firma propria. Questi sono i romantici. Non c’è da meravigliarsi se il carattere tipico di un personaggio ricorda certi nostri pensieri; mille personaggi possono essere un solo uomo ed un solo personaggio può essere mille persone. Ovvio, perché siamo semplicemente uomini. Ma il Granchio post-adolescente vuole comunicare. Non c’è da meravigliarsi se… anzi no, meravigliatevene. Meravigliatevene finché potete; concedetevi questi pochi momenti di riconoscimento e di sana riflessione, come farei io stesso, testardo cancerino dei decadenti. Affinché non possiate dimenticare questi slanci di vita che entusiasmano noi uomini vivi tra vivi nella forra dei morti.»
Bibbo III.
Presentazione de "Le Livre du Crabe"

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Chi mi conosce sa bene che questo è il mio secondo blog che pubblico; in verità ce ne sarebbe addirittura un terzo, ma quello ha avuto breve vita non facendo in tempo a sviluppare una sua storia.
Il Bibblog (http://bibblog.blog.tiscali.it) una storia ce l'ha avuta, breve ma di sicuro intensa, centrata su una anch'essa breve storia d'amore che non vorrebbe mai finire permanentemente; il Bibblog era uno sfogo personale dialogando anche su altro della mia vita, sempre su questo cammino moroso. Questo blog non vuole essere il suo proseguimento, quindi Bibbo non parlerà di sé in prima persona dei suoi "affari"; sarà tutto molto più prosaico, molto meno bibblog. Benvenuti nel mio libro, dunque. Benvenuti nel libro del Granchio.

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